Chissà se quel 21 gennaio 1921 i convenuti al teatro Goldoni di Livorno avrebbero mai immaginato che il partito che stavano fondando sarebbe diventato la forza politica comunista più grande del mondo occidentale.
Benché la storia del PCI si sia interrotta dopo settant’anni dalla fondazione, quando al congresso di Rimini del 31 gennaio 1991 la mozione di Achille Occhetto e Massimo D’Alema ha dato il via alla creazione di quello che diventerà il Partito democratico della sinistra, oggi il PCI festeggerebbe i suoi 100 anni.
Dei primi anni, quando il partito si chiamava Partito comunista d’Italia, si ricordano le figure di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. I due daranno un’identità al comunismo italiano. Il primo sul fronte filosofico e culturale, il secondo, soprannominato “il migliore”, fu l’artefice della partecipazione dei comunisti alla stesura della Costituzione italiana e ai primi governi del dopoguerra.
Le scelte di Togliatti, che prospettava una “via italiana al socialismo”, non tardarono a provocare opposizioni all’interno del partito. La più rumorosa fu quella di Pietro Secchia, esponente della linea dura, quella che si opponeva a qualunque compromesso con la Democrazia cristiana e considerava la lotta armata una necessità per l’istaurazione del comunismo in Italia.
La linea istituzionale e quella rivoluzionaria continuarono a coesistere nel partito fino al ’68 e per tutti gli anni Settanta, quando il terrorismo di destra e di sinistra insanguinò l’Italia e il Partito comunista si trovò non di rado sotto i riflettori, accusato di avallare, seppur in maniera non esplicita, le azioni dei terroristi, in particolare delle Brigate rosse.
Nel frattempo, dal 1972, si inaugura l’era di Enrico Berlinguer, probabilmente il segretario più amato dai militanti comunisti. Il nuovo segretario si contraddistingue da subito per le sue scelte provocatorie. Da un lato il compromesso storico, ovvero un’alleanza politica con la DC di Aldo Moro che avrebbe dovuto portare i comunisti al governo, cosa che di fatto non avvenne, anche a causa della morte di Aldo Moro, allora presidente del partito, ufficialmente ucciso dalle Brigate rosse, ma su cui ancora oggi si addensano numerosi dubbi.
Dall’altro l’eurocomunismo, un avvicinamento tra i partiti comunisti occidentali per la creazione di un’alternativa socialista all’influenza sovietica. La cosa non fece piacere alla nomenklatura sovietica che vedeva in questa mossa un tentativo inaccettabile di allontanamento dall’ortodossia marxista-leninista.
I progetti di rinnovamento politico e morale di Berlinguer si arrestano con la sua improvvisa scomparsa nel 1984, un evento molto sentito che si tradurrà nel famoso sorpasso alla Democrazia cristiana durante elezioni europee del 1984, quando il partito comunista ottenne il 33,3%, quasi 12 milioni di voti.
Alla fine degli anni Ottanta, con il crollo dell’Unione sovietica, si impone un serrato dibattito all’interno del partito. Continuare con il comunismo, oppure aprirsi ad altre suggestioni? La seconda ipotesi prende il sopravvento non senza tribolazioni interne. Dal congresso del 1991 infatti il partito si spacca ed emergono il Partito democratico della sinistra e Rifondazione comunista.
La fine del comunismo fu per molti militanti il crollo di un mito, la fine di un’epoca. Che cosa rimane oggi di quell’esperienza?
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